John Ronald Ruel Tolkien e l’Irlanda: un binomio apparentemente curioso e strano. Per quanto spesso Tolkien venga messo in relazione col mondo celtico, sappiamo che le sue radici culturali affondavano nel terreno dell’Inghilterra pre-normanna, l’Inghilterra dei piccoli orgogliosi regni Sassoni. In Tolkien poi non c’era la minima quantità di sangue irlandese: egli era un autentico Englishman, un vero inglese delle Midlands, specialmente da parte materna, quella famiglia Suffield delle cui caratteristiche si sentiva pieno. La sua parte paterna poi, i Tolkien, erano originari della Germania, ed erano venuti in Inghilterra nel XVIII secolo in occasione dell’appropriazione indebita della Corona da parte della famiglia degli Hannover, che l’aveva strappata agli Stuart, scozzesi e cattolici. Per una certa ironia della sorte Tolkien, uno dei più grandi scrittori cattolici del ‘900, discendeva da severi protestanti tedeschi che avevano combattuto per la causa dell’imperialismo britannico di stampo protestante. Ma – come sappiamo- Mabel Suffield Tolkien, già vedova, aveva incontrato la Luce Gentile della Chiesa di Roma, ed era diventata cattolica, firmando la propria condanna ad un martirio nascosto. L’ostracismo che subì da parte della sua famiglia gettò lei e i suoi due figli nella miseria, costringendola a lasciare il delizioso villaggio di Sarehole Mill, la Contea dell’immaginario del piccolo John, e a trasferirsi in un quartiere più popolare. Qui avvenne il primo incontro di Tolkien con l’Irlanda. Prese infatti a frequentare la Parrocchia di St. Anne, parrocchia che era nel quartiere di Digbeth, dove vivevano in povere case numerosi immigrati irlandesi. In qualche modo Digbeth era una sorta di Little Ireland, dove si festeggiava (e si festeggia tuttora) San Patrizio, dove nei pub irlandesi gli immigrati potevano lenire la loro nostalgia tra pinte di birra scura e canti della patria perduta.
Questo -dicevamo- fu il primo incontro di Tolkien con l’Irishness, l’irlandesità. Più tardi avrebbe scoperto le lingue gaeliche, e avrebbe studiato della storia e della cultura dell’Isola di Smeraldo, ma certamente il contatto umano con i poveri irlandesi di Birmingham fece nascere in lui dei sentimenti di simpatia verso i Figli di Erin. Lo attesta quella amarezza descritta in una lettera in cui parla della “mentalità dell’Ulster” del suo grande amico C.S. Lewis, alludendo al settarismo anti-cattolico tipico della comunità di colonizzatori protestanti dell’Irlanda del Nord che purtroppo perdurò a lungo nell’autore delle Cronache di Narnia. Tolkien dunque si sentiva solidale con i cattolici irlandesi, discriminati e oppressi.
Tolkien visitò diverse volte l’Irlanda nel corso della sua vita, come turista. Aveva anche collaborato da giovane Fellow di Oxford con quell’istituzione accademica, l’University College di Dublino, che era stato fondato nell’800 dal Cardinale Newman, colui al quale si doveva la conversione di sua madre, e che aveva anche fondato la parrocchia di St. Anne. Proprio correggendo un compito per l’ammissione al College, si era verificato il leggendario episodio che ogni appassionato di Tolkien ben conosce: quello del compito consegnato in bianco dove il professore scrisse le fatidiche parole:
In un buco della terra viveva un Hobbit.
Tuttavia, il più significativo gesto di attenzione rivolto alla storia, alla cultura, alla religiosità dell’Irlanda Tolkien lo compì nel 1955. Il numero della rivista letteraria inglese Time and Tide del 3 dicembre 1955 presentava un contributo straordinario: un breve poema di 132 versi il cui autore era John Ronald Tolkien. Da poco si era conclusa la pubblicazione del Signore degli Anelli, uscito – per scelta dell’Editore- in tre parti distinte, e con Il Ritorno del Re i lettori inglesi avevano ora in mano l’opus magnum tolkieniano. Era iniziato il cammino di uno straordinario successo per lo scrittore delle Midlands.
Forse fu una sorpresa, per molti lettori che già lo avevano apprezzato per Lo Hobbit e che ora venivano conquistati dalla grande epica della Terra di Mezzo, la pubblicazione di questo poema che si ispirava ad un importante testo del Medioevo irlandese: la Navigatio Sancti Brendani. Scritta da un autore ignoto, probabilmente un ecclesiastico, nel IX o X secolo, conobbe vasta fama e popolarità, diventando un autentico best-seller del suo tempo. Ci è pervenuta attraverso un notevole numero di codici, databili dalla fine del X al XV secolo. Vi si narra di San Brendano di Clonfert, personaggio vissuto all’inizio del VI secolo, fondatore di monasteri nel remoto occidente dell’isola che si affaccia sull’Atlantico: Ardfert nel Kerry e Clonfert nella Contea di Galway. Brendan, questo il suo nome gaelico, era stato uno dei primi a prendere il mare, fidando totalmente nella Divina Provvidenza, volgendo la sua barca verso l’ignoto. Fu in Scozia, e poi si spinse ancora più a nord, fino ad arrivare alle lontane Isole Fær Øer, dove esiste tuttora una toponomastica che ricorda il nome di Brendan. San Brendano divenne il protagonista di una storia leggendaria che apparteneva ad un genere letterario molto diffuso nell’antica Irlanda, quello degli Imram.
L’Imram era la narrazione di un viaggio avventuroso per mare, compiuto da uno o più eroi. Fu questo genere a influire sulla genesi della Navigazione di San Brendano, in cui al tema del viaggio dell’eroe si sovrappone quello della “peregrinatio pro Cristo”.
Se per gli antichi celti d’Irlanda l’immenso oceano che si stende a Occidente prefigurava l’esistenza di isole misteriose e incantate, Brendano, figlio di quella Irlanda che dopo aver ricevuto il Battesimo da San Patrizio aveva sfornato asceti e evangelizzatori instancabili, è il nuovo eroe che affronta il Mistero forte di una fede eroicamente vissuta, ricca di aspri sacrifici, di sforzi contro ogni pericolo e avversità.
In questo caso il racconto, scritto probabilmente da un profugo giunto sul continente a causa delle tremende incursioni vichinghe che imperversavano in Irlanda, vede come protagonista un monaco, Brendano, il cui desiderio di Dio, di ricerca, non può che rivolgersi verso l’oceano che si spalanca davanti ai luoghi in cui vive.
Tolkien non solo aveva ripreso, abbastanza esplicitamente, il tema del viaggio dell’eroe, ma anche della ricerca delle Isole dei Beati, presente nel Silmarillion e nei Racconti Incompiuti, oltre che naturalmente nel Signore degli Anelli, con il suo epilogo – la partenza di Bilbo e Frodo dai Porti Grigi – struggente di bellezza e di nostalgia. Oltre a ciò, come detto ebbe modo egli stesso di comporre una sua versione del viaggio di San Brendano, intitolata Imram.
Al tema classico del viaggio del santo monaco, Tolkien aggiunge alcuni elementi della sua mitologia: gli elfi, le isole ad occidente della Terra di Mezzo, l’Albero Bianco di Valinor, e infine la Stella, potente simbolo di luce, che aveva guidato Earendil il marinaio nei racconti del Silmarillion, di cui è Signora la dolce Elbereth, invocata nella Saga dell’Anello come protettrice dal male. La rivisitazione del viaggio di Brendano operata da Tolkien è intensamente poetica, visionaria, e l’anglosassone professore si lascia conquistare dallo spirito celtico che aveva avuto modo di conoscere attraverso le sue frequentazioni dell’Irlanda. Tolkien conserva i riferimenti originari alla geografia dell’Irlanda occidentale: la contea di Galway, il villaggio di Clonfert, con il monastero di Brendano, il fiume Shannon – il maggiore dell’isola- il lago Lough Derg; rispetto al racconto iniziale aggiunge gli elementi della sua geografia immaginaria, e soprattutto della mitologia, una mitologia che- come è stato spesso rilevato, non hai mai attinto al modo celtico al quale appartiene Brendano. Tuttavia, se è vero che i punti di riferimento tolkieniani erano i miti scandinavi e germani, in particolare il Beowulf, questo suo poema appare invece un doveroso tributo al mondo celtico che pure era stato non solo dell’Irlanda, ma anche dell’antica Britannia prima della conquista sassone.
Paolo Gulisano
La “Luce Gentile” è un riferimento alla Preghiera di Newman