Nel vasto mare delle critiche rivolte alla serie, all’accusa principale, riguardante la presunta “non canonicità” (a cui, invero, abbiamo già risposto mostrando che, messa nella giusta prospettiva interpretativa, la serie è rispettosa del messaggio di Tolkien, andando ad espandere alcuni concetti tolkieniani che altrimenti rimarrebbero confinati nelle opere) una seconda critica concerne la qualità della scrittura.
Riteniamo, invece, che la scrittura costituisca uno dei punti di maggior forza della serie.
Due sono i fili conduttori che ci persuadono di questo e che meritano particolare attenzione: il legame tra Galadriel e Halbrand e la leggenda del mithril. Quest’ultima, a sua volta, intreccia le relazioni tra Durin IV ed Elrond, tra quest’ultimo e Gil-galad, tra Durin III e il figlio, nonché, in certo qual modo, tra il sovrano di Khazad-dûm e quello di Lindon.
Analizzeremo, in questa prima parte, il rapporto tra Halbrand e Galadriel.
Il proemio de “Gli Anelli del Potere e della Terza Era” contenuto ne “Il Silmarillion” ci rivela che “Sauron assunse nuovamente sembianze di bellezza e fece atto di sottomissione a Eönwë, l’araldo di Manwë, abiurando tutte le malefatte.” (Silmarillion)
L’inizio del capitolo così come l’avvio della Seconda Era si fondano su un Sauron “riformatore” e pentito.
Come annotato nella Lettera a Milton Waldman (1951), “In quei primi tempi, infatti, egli mostrava ancora equanimità, e le sue intenzioni e quelle degli elfi sembravano essere, per certi aspetti, simili nella volontà di risanare le terre desolate.”
Halbrand, sotto le mentite spoglie di Finrod, nella visione mentale che proietta nella mente di Galadriel (ultimo episodio della prima stagione) sostiene “lui (Sauron) cercava un potere, non per distruggere la Terra di Mezzo ma per guarirla, proprio come i tuoi compagni elfi cercano di fare in questo preciso momento” (la linea di dialogo ricalca la lettera di Tolkien) e continua “Quando Morgoth fu sconfitto fu come se un grosso serrato pugno avesse allentato la presa intorno al mio collo” suggerendo la soggezione di Sauron a Morgoth e il pentimento conseguente.
“E nel silenzio della prima aurora ho avvertito finalmente la luce dell’Uno, e sapevo, semmai avessi dovuto essere perdonato, che dovevo sanare tutto quello che avevo aiutato a rovinare.”
Il ravvedimento tardivo di Sauron con cui abiurò “a tutte le sue malefatte” fu un gesto genuino (in un primo momento) “poiché la caduta di Morgoth e la grande collera dei Signori dell’Occidente lo avevano sgomentato [Profondamente turbato, visibilmente smarrito, sbigottito, attonito]” (Silmarillion)
Halbrand, quindi, nella serie incarna questo primo Sauron riformatore.
Il fraseggio scambiato tra lui e Galadriel è efficacissimo nel mostrare la sua inclinazione benigna.
Analizziamo il seguente momento: “Quando Morgoth fu sconfitto, fu come se un grosso serrato pugno avesse allentato la presa intorno al mio collo”
Morgoth, essendo un’entità di grande potere e malevolenza, esercitava un controllo schiacciante su Sauron e sugli altri suoi servitori.
Questo tipo di dominazione può essere tradotta in una sorta di relazione abusiva, dove l’individuo dominante infligge paura, manipolazione e controllo su un soggetto subordinato. In psicologia, le vittime di tali dinamiche spesso sviluppano una serie di traumi e stress cronici che possono manifestarsi sia a livello mentale che fisico.
La metafora del “pugno serrato intorno al collo” evoca quindi un’immagine di oppressione continua, simile alla sensazione di essere costantemente sotto pressione o minaccia.
In termini psicologici, questo, sovente, viene ricollegato a una condizione di stress cronico o ansia costante, dove la persona si sente costantemente minacciata o controllata, senza possibilità di fuga.
Gli showrunner hanno quindi selezionato dei dialoghi efficaci nel rappresentare questo patimento interiore, coerenti col testo e con il contesto.
Quando Morgoth viene sconfitto, questa oppressione si allenta, dando a Sauron un sollievo temporaneo. Dal punto di vista squisitamente scientifico, questa non è altro che la reazione del sistema nervoso autonomo, che regola la risposta del corpo allo stress.
Durante una situazione di stress prolungato, il corpo rilascia ormoni come il cortisolo e l’adrenalina, che preparano l’organismo a reagire alla minaccia.
Quando la fonte di stress (Morgoth, in questo caso) viene rimossa, il sistema nervoso parasimpatico si attiva per riportare il corpo a uno stato di calma, riducendo la tensione muscolare e la frequenza cardiaca, che può essere percepita come un “allentamento” della pressione.
Insomma psicologicamente, la rimozione di una figura dominante e oppressiva come Morgoth può indurre un senso di sollievo immediato, anche se temporaneo (qualcosa di analogo lo vivrà Gollum allorquando smarrirà l’Anello).
Questo sollievo, tuttavia, può essere complesso, poiché accompagnato da sentimenti contrastanti di colpa, paura o insicurezza. Era “sgomento” e quindi smarrito.
La reazione di Sauron al pentimento dopo la caduta di Morgoth è da inquadrarsi come un tentativo di ristabilire il proprio senso di controllo e identità dopo anni di dominazione.
Anche qui, da un punto di vista psicologico, le vittime di relazioni abusive o di forte controllo spesso cercano di ritrovare una propria strada dopo la fine della relazione di dominio.
Eppure questo processo è complicato e non sempre porta a un cambiamento duraturo, come nel caso di Sauron che alla fine ritornò alla sua ricerca del potere.
In sintesi, la frase dell’episodio la su può interpretare come una rappresentazione metaforica e psicologica del sollievo che Sauron prova alla scomparsa di Morgoth, un sollievo che riflette la complessa dinamica di dominazione e liberazione vissuta sia a livello fisico (allentamento della tensione) che psicologico (sentimento di sollievo e temporanea lucidità).
Ne consegue che Halbrand, nella serie, non è ancora l’Annatar malefico, è una via di mezzo, una figura che rimane da venire.
“Perciò, quando Eönwë se ne andò, egli si nascose nella Terra di Mezzo; e ricadde nel male, poiché i lacci che Morgoth aveva gettato su di lui erano assai forti” (Pag. 506).
A pagina 508, Sauron assume “il nome di Annatar, il Signore dei Doni.”
È evidente che questo passaggio non avviene in maniera netta e immediata, ma il primo Sauron (che vediamo nella prima stagione) è essenziale non solo per delineare la natura di un Sauron contrito e ravveduto, ma anche per instaurare la relazione Sauron-Galadriel.
Per questo motivo diviene fondamentale l’anonimato di Halbrand, che è un doppio anonimato.
È sia un anonimato pubblico, nel senso che lo spettatore non viene messo al corrente dell’identità del personaggio, sia un anonimato “privato”, nel senso che è quello in cui crede Galadriel.
Paralleli Cinematografici: Il Red Herring nella Cultura Popolare
Nel primo caso siamo di fronte al cosiddetto “red herring” (letteralmente “aringa rossa”).
Questo termine si riferisce a una tecnica narrativa utilizzata per depistare o distrarre il pubblico da ciò che è realmente importante, mantenendo la suspense. È quindi una risorsa narrativa per indurre lettori o personaggi a seguire una pista che li allontana dalla verità. È essenziale che venga preservata.
Da un punto di vista che potremmo definire neuroscientifico, questa tecnica sfrutta il modo in cui il cervello umano elabora le informazioni e costruisce aspettative. Il cervello è costantemente impegnato nel riconoscimento di schemi e nella previsione di eventi futuri sulla base delle informazioni disponibili.
Quando un personaggio viene reso anonimo, il cervello non può fare affidamento su schemi preesistenti o informazioni note, generando così un livello di incertezza che mantiene alta l’attenzione e la suspense.
La sorpresa finale attiva il sistema di ricompensa del cervello, rilasciando dopamina, il neurotrasmettitore associato alla gratificazione e alla novità, rendendo l’esperienza più memorabile e piacevole.
Logicamente, il mantenimento dell’anonimato di un personaggio serve a preservare l’equilibrio narrativo e a conservare l’effetto sorpresa.
Se l’identità di un personaggio chiave, soprattutto se antagonista, fosse rivelata troppo presto, il pubblico potrebbe prevedere gli sviluppi successivi della trama, riducendo l’impatto emotivo del climax.
Si renderebbe quindi sterile ogni azione presente e futura in quanto opacizzata dalla consapevolezza del divenire e dalla prevedibilità.
L’anonimato crea un vuoto di informazione che spinge il pubblico a formulare teorie e a prestare attenzione ai dettagli, aumentando il loro coinvolgimento.
Quando il colpo di scena arriva, il pubblico sperimenta un improvviso riallineamento delle informazioni, che produce un effetto sorpresa potente e soddisfacente.
In termini cinematografici, quindi, il “red herring” viene utilizzato per giocare con le aspettative del pubblico. Spesso, l’identità di un personaggio viene mantenuta segreta attraverso tecniche visive e narrative, come inquadrature che non mostrano il volto, voci distorte o l’uso di pseudonimi.
Questo stratagemma non solo conserva la suspense ma anche spinge gli spettatori a riconsiderare ogni personaggio che incontrano, cercando indizi su chi potrebbe essere il vero colpevole o antagonista.
Alcuni osservatori, c’è da rilevare,al contrario di quanto sopra auspicato, avrebbero invece gradito un’anticipazione dell’identità del personaggio vanificando la godibilità della visione!
In vario grado, per proporre dei paragoni celebri, la serie ha invece deciso di puntare sull’intrattenimento coinvolgendo il pubblico, mostrandoci un anonimato come in:
Darth Sidious/Palpatine nella trilogia prequel di Star Wars, dove il “cattivo” è stato mantenuto nell’anonimato per enfatizzare il coinvolgimento degli spettatori. Sebbene gli spettatori conoscessero il suo ruolo nei film precedenti, la sua identità come il malvagio Sith viene tenuta nascosta ai personaggi principali e in parte al pubblico fino a una rivelazione più tarda nella saga.
John Harrison/Khan in Star Trek Into Darkness (2013) viene presentato al pubblico in questa maniera. L’identità del personaggio (di Benedict Cumberbatch) viene inizialmente mantenuta segreta con un nome falso (John Harrison), anche se molti fan sospettavano che fosse in realtà Khan, un noto nemico della serie originale.
Questa tecnica cinematografica, quando ben eseguita, trasforma un film o una serie televisiva in un’esperienza indimenticabile, mantenendo il pubblico agganciato fino alla fine.
Ma l’anonimato è servito anche a instaurare il legame tra Galadriel e Halbrand.
Galadriel: Il Motore della Serie
Una considerazione di merito: gli showrunner hanno avuto una valida intuizione, seguendo i testi, che è consistita nell’introdurre, come agente motore della serie, Galadriel. È lei che domina le scene nella prima stagione.
Ed è cruciale che la serie abbia preso avvio proprio da lei, poiché è da Galadriel che Tolkien muove i fili del destino del popolo elfico. Fu infatti lei a cogliere per prima il ritorno di Sauron
“Alla fine, però, Galadriel capì che ancora una volta Sauron, come negli antichi tempi della cattività di Melkor, era stato dimenticato” (Racconti Incompiuti, pag. 355).
“Nonostante Sauron non avesse ancora un nome definito e le sue azioni non fossero interpretate come il frutto di un unico spirito maligno, principale servo di Melkor, Galadriel percepì nel mondo una nefasta intenzione proveniente da una fonte lontana a Est, oltre l’Eriador e i Monti Brumosi” (Racconti Incompiuti, pag. 355).
Galadriel si dimostrò la prima osservatrice del ritorno di Sauron. “Da questo punto di vista, Galadriel si mostrò più lungimirante di Celeborn, e fin dall’inizio si rese conto che la Terra di Mezzo non poteva essere salvata dal ‘residuo di male’ che Morgoth si era lasciato dietro, se non mediante l’unione di tutte le genti che gli opponevano” (Racconti Incompiuti, pag. 356).
Sauron, dal canto suo, “si rese conto immediatamente che Galadriel sarebbe stata il suo principale avversario e ostacolo, e cercò pertanto di rabbonirla, sopportandone il disprezzo con apparente pazienza e cortesia” (Racconti Incompiuti, pag. 358).
Anche Celebrimbor, una volta comprese le vere ragioni di Sauron, si rivolgerà a Galadriel per ottenere consiglio (Racconti Incompiuti, pag. 359), e sarà Galadriel a suggerire quale condotta tenere per poi ricevere infine uno dei tre anelli: Nenya.
Ecco, la sua figura, al pari di quella di Halbrand, volge l’acuto sguardo verso il nodo che li unisce, preannunziando il fatale vincolo tra il Signore dell’Ombra e colei che un dì sarà la Dama dei Galadhrim.
Sappiamo che il loro incontro, come tratteggiato nello spettacolo, affonda radici in quel verso de “Lo specchio di Galadriel”, alludendo alla “porta serrata”.
Ne “Il Signore degli Anelli” viene sottolineato quanto segue: “Sappi Frodo, che anche mentre parlo con te, io scorgo l’Oscuro Signore, e conosco le sue intenzioni, tutte le sue intenzioni verso gli Elfi. Ed egli non fa che scrutare, per leggere in me e nel mio pensiero; ma la porta è ancora chiusa” (Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello, Bompiani, XXI Edizione tascabile marzo 2006, pag. 474).
Cos’è questo meccanismo della porta chiusa?
Proviamo a spiegarlo.
“Gli Alti Elfi distinguevano chiaramente tra fanar, il “vestimento” fisico adottato dagli Spiriti nell’auto-incarnazione, come modo di comunicazione con gli Incarnati, e altri modi di comunicazione tra menti, che potrebbero assumere forme “visive”. Una mente superiore (come Sauron) potrebbe comunicare una visione desiderata direttamente nella mente di un’altra persona, che la percepirebbe poi come qualcosa di esterno.”
Nel testo che segue, ‘Conoscenza e Memoria’ (NoME, 2, VIII), siamo introdotti all’idea di apertura come prerequisito per la comunicazione mente-a-mente e il suo legame con il consenso e il desiderio.
“Essi distinguono tutto ciò dal divinare, che non è né indovinare né fingere; poiché ritengono che il fëa possa arrivare direttamente alla conoscenza, o a essa prossima, senza ragionare su prove o apprendere da autorità viventi. Sebbene il divinare sia, dicono, realmente solo una modalità veloce di apprendimento da autorità: poiché il fëa può apprendere solo (a parte il ragionamento) per contatto diretto con altre menti, o al massimo per “ispirazione” da Eru. (Questo è veramente chiamato “divinare”.) Questo contatto può avvenire a volte tra menti incarnate dello stesso ordine senza contatto corporeo o prossimità. Menti di un Ordine superiore, come i Valar (incluso Melkor), possono influenzare più facilmente quelle di un ordine inferiore (come gli Eldar) da lontano. Non possono così costringere o dettare, sebbene possano informare e consigliare. Anche questo (eccetto in grande necessità) lo fanno solo quando la mente è del suo consenso o desiderio aperta a loro: particolarmente, come quando uno degli Eldar chiama uno dei Valar per nome in qualche necessità o dubbio; generalmente come quando uno degli Eldar si pone sotto la protezione e guida di Manwë o Varda (o altro Vala).”
“Apertura” è lo stato naturale o semplice di una mente che non è altrimenti impegnata. In Arda Unmarred ogni mente è aperta e riceve tutte le influenze e i pensieri che la toccano, ed è solo il ‘non-volere’ o avanir che chiude una mente.”
Il cammino verso una “mente aperta” si fonda sulla fiducia, forgiata nel crogiolo della “conversazione”, della “relazione” e della speranza che i “desideri soddisfatti” trovino compimento. Tale dinamica è vividamente incarnata nella prima stagione, ove Halbrand e Galadriel si intrecciano in un legame complesso.
Galadriel anela a guidare un esercito contro il suo nemico, e Halbrand le prospetta tanto l’obiettivo (gli “orchi nelle Terre del Sud”) quanto i mezzi (un “esercito númenóreano” per la sua rivendicazione).
Eppure, è solo giunti in Eregion, dinanzi all’insolita influenza che Halbrand esercita sugli altri, che la fiducia di Galadriel inizia a vacillare. Da qui, Sauron intensifica i suoi subdoli tentativi di manipolazione.
Poiché Sauron si accinge a penetrare la mente di Galadriel, ci si attenderebbe che la conduca all’oblio affinché la “immagine mentale” si radichi con piena potenza. Ed è proprio ciò che accade quando la assale sulle rive del “Glanduin”.
“In ogni caso indemmar erano per lo più ricevuti dagli Uomini nel sonno (sogno). Se ricevuti quando svegli, erano di solito vaghi e spettrali (e spesso causavano paura); ma se erano chiari e vividi, come gli indemmar indotti dagli Elfi tendevano a ingannare gli Uomini facendoli credere che fossero “cose” reali percepite con la vista normale. Sebbene questo inganno non fosse mai intenzionale da parte degli Elfi, spesso era creduto da loro [gli Uomini].” (NoME, 2, VII)
In quanto elfo, Galadriel dovrebbe essere consapevole della natura delle immagini mentali e delle reazioni a esse. E così è, poiché riconosce ciò che le sta accadendo e inizia a raccogliere la sua riluttanza (“esci dalla mia mente!” dice in “Amalgama”).
La riluttanza non può essere superata con forza bruta; perciò, Sauron, lungi dall’esercitare pressione, attinge alle sottili risorse che alimentano la mente, tenendo la “fiducia aperta” abbastanza a lungo da poter presentare la sua proposta. Ecco allora che lo vediamo assumere volti a Galadriel ben noti.
Il primo volto che egli indossa è quello di suo fratello. Questo colpisce Galadriel nel profondo e la travolge per un certo periodo. Ma, fallito tale tentativo, Sauron si rivolge ad Halbrand, una figura che porta in sé un residuo di fiducia, legato a una forma già vista.
Successivamente, tenta di sedurla con la promessa di farla divenire regina.
A tal punto, Galadriel “chiude le porte”.
Alla luce di questi eventi, possiamo meglio comprendere l’intento della serie nel delineare con precisione la relazione tra Galadriel e Halbrand.
Ne “Gli Anelli del Potere e della Terza Era” apprendiamo di una caratteristica propria dell’Unico Anello: la facoltà di vedere e dominare i pensieri di coloro che indossano gli altri Anelli del Potere.
Tale capacità si ricollega a un aspetto di Morgoth.
Melkor/Morgoth aspirava a dominare ogni cosa, comprese le menti degli esseri incarnati, ma tale fine non gli fu dato di raggiungere. Il potere diretto serrava le menti, e la soluzione alternativa da lui escogitata, fondata sull’inganno e sulla tortura del corpo, ottenne solo un successo parziale, rivelandosi poco affidabile.
Eppure, Melkor aveva un luogotenente, un antico discepolo di Aulë, che si distingue per la sua maestria nell’ingegneria e nell’organizzazione di grandi progetti. Progetti come la creazione degli orchi.
“Dobbiamo dunque forse rivolgerci a Sauron per trovare una soluzione al problema della cronologia. Sebbene fosse immensamente inferiore al suo Maestro per potenza innata, egli rimase meno corrotto, più freddo e più capace di calcolo. Almeno nei Giorni Antichi, prima che fosse privato del suo signore e precipitasse nella follia di emularlo, tentando di diventare egli stesso il supremo Signore della Terra di Mezzo. Finché Morgoth non fu abbattuto, Sauron non cercò la propria supremazia, ma operava e tramava per un altro, desiderando il trionfo di Melkor, che fin dall’inizio aveva venerato. Così, spesso riuscì a realizzare opere concepite per primo da Melkor, che il suo maestro non volle o non poté completare nella furiosa fretta del suo odio.”
(“Miti trasformati”, HoME v.10).”
Dopo la sconfitta di Morgoth, Sauron continuò a lavorare sul problema della dominazione della mente.
Per esercitare il potere sulla mente senza che essa si chiuda, Morgoth avrebbe avuto bisogno di un tramite, un legame che la mantenesse aperta e ricettiva al suo volere.
La “fiducia” nel soddisfacimento dei “desideri” è ciò che spalanca le porte della mente in una relazione personale.
Se un tale legame potesse essere forgiato con un “oggetto”, allora quell’oggetto diverrebbe il tramite perfetto.
Ed è appunto ciò che fanno gli anelli.
Gli Elfi ripongono fiducia negli “anelli” per ottenere ciò che bramano: rallentare il loro declino nella Terra di Mezzo, “posticipare la stanchezza del mondo.”
Ma in questo stesso atto di fiducia, essi lasciano le loro menti esposte a colui che, nell’ombra, regge il dominio su tutti gli anelli.
Gli anelli, dunque, non sono altro che il consenso reso tangibile, la materializzazione di un accordo non detto, ma potentemente vincolante.
Ma perché gli elfi non potrebbero semplicemente smettere di usare gli anelli?
Per dipendenza.
Maggiore è l’uso degli anelli, più le enclave elfiche diventano dipendenti. Senza gli anelli, esse svaniscono, come si ricorda nel dialogo tra Galadriel e Frodo.
Sauron tuttavia utilizza l’Unico Anello nella Seconda Era prima che la dipendenza possa prendere piede.
Gli elfi, percependo la sua presenza, si privano degli anelli con rabbia e paura (come narrato ne “Gli Anelli del Potere e la Terza Era”).
Il piano di Sauron per ‘indurre’ gli elfi a entrare sotto il suo dominio attraverso gli Anelli del Potere fallisce; è così costretto a ricorrere ai metodi di danno fisico in stile morgothiano.
Tuttavia, avrà maggior successo con gli uomini, dove l’ossessione per l’immortalità può essere incamerata in un tempo molto più breve.
Ciò che abbiamo osservato, quindi, tra Sauron e Galadriel nella prima stagione (e forse vedremo in qualche modo con Celebrimbor) è il metodo di Sauron, il metodo di un “cattivo” che agisce guadagnando lentamente la fiducia tramite l’inganno, che è ciò che fa con Galadriel prima che lei lo riconosca.
In altre parole, la serie esplora un concetto chiave del Legendarium riguardante la lettura della mente. Mostra una strategia ordita da Sauron, retaggio degli insegnamenti di Melkor.
La loro interazione illustra il problema che gli anelli sono progettati per superare (un aspetto che vedremo nelle stagioni future): vedere e governare i pensieri degli elfi.
E così si conclude la prima stagione: con gli Anelli del Potere e l’occhio di Sauron.
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