Un episodio di ottima qualità che risente dell’effetto magniloquente dei primi due episodi, pieni di scene madri, colpi di scena ed emozioni forti, certo radicate in Tolkien ma comunque capaci di arrivare anche a chi non apprezza lo stile di Tolkien.
Così, sembra che il terzo episodio sia, seguendo il criterio dell’emozionalità, “meno bello”.
Eppure è altrettanto apprezzabile e ben fatto, perchè non rinuncia allo stile di Tolkien, e anzi rilancia, mostrandoci scene apparentemente più compassate ma di grande importanza, sia testuale che di introspezione dei personaggi.
Nùmenor è il magnifico cuore di questa puntata: assistiamo al lento trionfo di Pharazon- un maestoso e cinico Trystan Gravelle- che complotta contro Mìriel, una sofferente Chyntia Robinson, in due scene davvero importanti e fedelissime a Tolkien.
Inanzitutto, ill tentativo di influenzare e circuire la cugina entrando nella sua stanza da letto- squarcio su un possibile futuro dipinto nel Silmarillon-, con un interessante discorso sul giusto vestito da indossare: il rosso per la potenza imperiale, e il bianco per rimanere nel passato e nel rispetto di Palantìr.
Pharazon vorrebbe che lei indossasse il rosso, segno di come lui vorrebbe che fosse un regnante; ma Mirìel ribatte “mio padre usava il bianco“: risposta ferma e saggia, che ben ricorda la ferma opposizione di Gandalf a Saurman quando questi preferisce essere multicolore piuttosto che bianco.
La seconda scena mostra il suo uso propagandistico dell’Aquila inviata da Manwe per benedire Miriel e che invece egli usa per farsi proclamare salvatore di Nùmenor, aiutato dai suoi seguaci, tra cui Earien, figlia di Elendil, che spezza così l’unità dei Fedeli, gettando a terra il Palantìr che aveva scoperto alla fine della prima stagione, per incriminare Mìriel, rea di usare un manufatto Elfico. Qui Pharazon è diabolico, e il ghigno con cui osserva i tumulti contro Mìriel, ripreso dalla telecamera in una frazione di  secondo, è da brividi: l’Akallabeth del Silmarillion, la caduta nell’Ombra definitiva dell’isola, si avvicina sempre più.
Una scena drammatica e veramente efficace, per una storyline che si prende il giusto tempo per far comprendere vicende complesse, e che non possono essere sacrificate sull’altare della rapidità. Se si adatta Tolkien, il suo stile va conservato, e la serie lo fa. Esempio di questo “prendersi il tempo giusto” è la scena nella locanda di Nùmenor, dove vediamo gli Uomini del Re complottare apertamente contro Miriel: tra di loro c’è Earien, e Valandil, che si trova lì, la riconosce: il giovane amico di Isildur affronta il gruppo con coraggio, ma la cosa più importante è vedere che, mentre elogia Mìriel, chiede che i Valar la proteggano; nessuno risponde all’invocazione. Un silenzio di tomba, che colpisce ed emoziona, perchè a Nùmenor ormai si è contro i Valar, e la solitudine coraggiosa di Valandil brilla come luce solitaria eppur costante.
Nemmeno la storyline di Isildur è da meno: il percorso dell’eroe è ancora tutto da vedere, ma, al di là dello scontro con Shelob- un cameo horror ben girato e pieno di tensione- è commovente il suo rapporto col cavallo Berek- tipico di tutti i Numenoreani- e soprattutto la sua confessione della perdita della madre, che avviene a Pelargir mentre un Theo spezzato dalla morte di Bronwyn ( uscita di scena che fa male ma spiegata bene e in linea con alcune famose morti tolkieniane per infettamento successivo di una ferita, come Aredhel del Silmarillion) piange mentre sente l’orfano Isildur raccontare del suo dolore a Estrid, la giovane e misteriosa donna del sud che egli ha incontrato.
Un trio di orfani: uno dei temi centrali di Tolkien, orfano egli stesso.
Una scena che è davvero fedelissima allo spirito dell’autore, e che insegna come Tolkien, e il modo di mostrarlo, non sia legato alle battaglie, alla magniloquenza, alla stra abusata “epicità”, ma trovi il suo cuore nella condivisione del dolore, o delle esperienze diverse eppur capaci di unire: sempre in questa parte della puntata, è interessante e molto significativo il dialogo tra Theo e Isildur di fronte all’acquedotto in rovina di Nùmenor: Theo si stupisce di come gli Uomini possano fare opere del genere, ma Isildur- un sempre più convincente Maxim Baldry- gli spiega che a Nùmenor è possibile. Una scena che mette in luce uno dei concetti principali della seconda parte del Silmarillion: l’effetto da portatori di civiltà e da quasi dèi che i Numenoreani fecero agli abitanti umani della Terra di Mezzo, prima di degenerare nell’imperialismo.
E infine, Annatar che continua ad ingannare Celebrimbor in maniera subdola ma comunque mirabile, con i duetti tra Charles Edwards e Charlie Vickers sempre più intriganti: veramente diabolico è qui Sauron che si mostra capace di far fare tutto a Celebrimbor, compreso il mentire a Gil-Galad non dicendogli nulla del lavoro che egli, Annatar/Sauron e i fabbri elfici stanno portando avanti.
Il finale intreccia questa vicenda con quella dei Nani, in cui spiccano come sempre Durin IV e Disa, una coppia che funziona benissimo, e che non scade mai nella volgarità e nella comicità a buon mercato, ma mantiene sempre un grande equilibrio tra dramma e leggerezza.
Anche i Nani iniziano a entrare nella tela del grande inganno, nonostante Durin IV sia sempre dalla parte giusta: in Eregion Annatar cerca di elogiarlo inventandosi un discorso tra lui ed Elrond, ma Durin non ci casca, e guarda con diffidenza Annatar, mostrandosi saggio e duro da accecare: ricorda molto il Gimli del Signore degli Anelli, quello dei libri, il quale, di fronte ai discorsi di Saruman, sbotta: “le parole di questo stregone non hanno nè capo nè coda”.
Durin ha preso quella via, ma questa volta l’ombra è caduta su Khazad-dum e le orecchie del padre sono ancora più sorde.
La via per la creazione degli Anelli dominati da Sauron è segnata, e lo vediamo nella scena finale, magistrale: Celebrimbor sta per inserire il pezzo di mithril nella forgia, ma uno sguardo silenzioso passa tra lui e Sauron; l’Elfo pone il mithril nelle mani di Sauron, che lo inserisce nel calderone, mentre in sottofondo si avvertono le parole, in linguaggio Nero, della maledizione sugli Anelli del Potere. Un modo perfetto per mostrare come questi Anelli sono toccati e manipolati da Sauron, e che non salveranno affatto la Montagna, ma diverranno la sua rovina.
Un episodio per nulla minore, quindi, ma diverso, senza scene madri, ma altrettanto significativo.
E questo è il bello dello stile di Tolkien: non c’è mai una sola via nel raccontare una storia, e Gli Anelli del Potere segue questa via.