È la scena che ha fatto discutere il pubblico, ed è la cosiddetta “umanizzazione” degli orchi.

L’immagine acclusa ci mostra un nucleo familiare orchesco.

L’intento della serie è quello di immortalare e quindi mostrare al pubblico un momento domestico in cui un gruppo di orchi risulta preoccupato per l’integrità della sua stessa famiglia.

Ma è verosimile questa scena? Sì e per valutarlo bisogna percorrere due vie.

1. Da una parte accertare se un orco possa avere o meno una famiglia.

2. Dall’altra, in caso di risposta affermativa, se possa provare compassione per gli elementi che la compongono.

1. Nei primi manoscritti de La caduta di Gondolin, l’elfo Cuorpiccino narra agli ospiti di Mar Vanwa Tyaliéva che «tutta questa razza fu generata da Melko dalle calure e dalle melme del sottosuolo», suggerendo in questo modo un atto di creazione autonoma da parte di Melkor.

Tuttavia, Cuorpiccino, con esitazione, ipotizza che alcuni Noldor possano essere stati corrotti e trasformati in Orchi, anticipando un concetto cardine che verrà poi sviluppato nel Silmarillion.

Questa prima origine degli orchi tenderebbe ad escludere che gli orchi abbiano un apparato riproduttivo essendo il prodotto di un’attività meccanica; tuttavia questa versione è da considerarsi per emendata perché in realtà, Melkor non può creare nulla di originale, e questo è un caposaldo dell’universo tolkieniano, ribadito più volte.

La concezione dell’incapacità creativa di Melkor emerge infatti in uno stadio successivo rispetto alla prima formulazione sulla creazione degli orchi. (“Racconti perduti”)

L’atto creativo è prerogativa esclusiva di Ilúvatar.

Tanto è più vero che quando Aulë, spinto dall’impazienza per l’attesa dei Figli di Ilúvatar, plasmò in segreto i sette Padri dei Nani, Eru lo ammonì, sottolineando che sarebbero rimasti automi privi di vita propria. Di fronte al rimprovero, Aulë si determina a distruggere i nani, ma Ilúvatar interviene santificandoli, infondendo loro un’anima. Così, anche se nati dal lavoro di un Vala, i Nani rimangono esseri senz’anima fino a quando Ilúvatar stesso gliela dona.

Il Silmarillion ci offre due teorie elfiche sull’origine degli Orchi (Schneidewind).

La prima afferma che Melkor creò gli Orchi dagli Elfi “schiavizzandoli e corrompendoli”, come parodie dei Figli di Ilúvatar.

La seconda ipotesi suggerisce che fossero “forse Avari che divennero selvaggi”, un caso di evoluzione tipica.

Altri testi propongono che Melkor creasse gli Orchi “dagli Uomini”, attraverso incroci con “spiriti malvagi” simili a Balrog. La realtà è che gli Orchi sono creature ordinarie; “crebbero e si moltiplicarono come i figli di Ilúvatar” (Silmarillion).

Questo ci viene confermato da Tolkien che in una lettera datata 21 ottobre 1963 e rivolta alla signora Munsby disse “devono esserci state delle donne-orco”.

Una famiglia orchesca, quindi, non è altro che l’esito logico di cose presentate da Tolkien stesso che impresse tale soluzione al suo sistema ordinamentale.

A questo punto dobbiamo chiederci se gli orchi oltre a riprodursi possano avere una vita moralmente orientata o se possano essere umanizzati.

La risposta ci viene da più fronti ed è semplicemente sì.

Ce lo dice Tolkien:

“Ma gli Uomini non erano ancora comparsi, mentre gli Orchi già esistevano. Aulë creò i Nani attingendo al ricordo della Musica; tuttavia, Eru non avrebbe mai approvato l’opera di Melkor al punto da permettere l’indipendenza degli Orchi. (A meno che gli Orchi non fossero, in ultima istanza, redimibili, o che potessero essere corretti e “salvati”.)

Sembra inoltre chiaro (vedi Finrod e Andreth) che, sebbene Melkor potesse corrompere e distruggere completamente i singoli individui, non è concepibile che potesse pervertire in modo assoluto un intero popolo, o gruppi di popoli, rendendo ereditabile quello stato di corruzione. [Aggiunto successivamente: Questo atto, se reale, deve essere opera di Eru.]”

(Anello di Morgoth)

Shippey afferma che, nonostante tutto, gli orchi condividono il concetto umano di bene e male, con un familiare senso di moralità, sebbene noti che, come molte persone, gli orchi sono del tutto incapaci di applicare la loro morale a se stessi. A suo avviso, Tolkien, in quanto cattolico, dava per scontato che “il male non può creare, solo deridere”, quindi gli orchi non potevano avere una moralità uguale e opposta a quella degli uomini o degli elfi.

(The Road to Middle-Earth: How J. R. R. Tolkien Created a New Mythology (Third ed.; pp. 362, 438 “capitolo 5, nota 14”).

In una lettera del 1954, la 153 Tolkien scrisse che gli orchi erano “fondamentalmente una razza di creature ‘razionali incarnate‘, sebbene orribilmente corrotte, se non più di molti uomini che si incontrano oggi”.

E nella stessa lettera sostiene:

“Ho quasi scritto ‘irrimediabilmente malvagie’; ma questo sarebbe andare troppo oltre. Perché, accettando o tollerando il loro concepimento “necessario alla loro esistenza attuale”, persino gli Orchi diventerebbero parte del Mondo, che è di Dio, e quindi in fin dei conti buono).

[…]

Ho descritto gli Orchi come esseri reali pre-esistenti su cui l’Oscuro Signore ha esercitato la pienezza del suo potere per rimodellarli e corromperli, non per farli.

In sostanza Tolkien ribadisce che Melkor non può creare gli orchi e che questi per quanto corrotti, facendo parte del Mondo rientrano nel più generale un disegno benevolo e divino.

Lo studioso di letteratura inglese Robert Tally scrisse in Mythlore che nonostante la presentazione uniforme degli orchi come “ripugnanti, brutti, crudeli, temuti e soprattutto eliminabili”, “Tolkien non poteva resistere all’impulso di dare corpo e ‘umanizzare’ queste creature inumane di tanto in tanto”, nel processo dando loro la propria moralità.

(https://dc.swosu.edu/mythlore/vol29/iss1/3)

Shippey nota che ne “Le due torri”, l’orco Gorbag disapprova il modo di agire degli elfi – riferendosi a un atto immorale – che è quello di abbandonare un compagno.

“Può darsi che non abbia nulla a che vedere con il vero pericolo. Comunque, non mi sembra che il grosso guerriero dalla spada tagliente gli attribuisca molto valore (si riferisce a Sam, qui ritenuto dagli orchi erroneamente un elfo)… Lasciarlo lì per terra: tipico degli elfi

In questo contesto, l’orco sembra criticare il comportamento che percepisce come una mancanza di lealtà o cura verso un compagno caduto o ferito. Ecco che così emerge la sua moralità.

L’orco, infatti, critica l’azione del “guerriero dalla spada tagliente”, che non attribuisce valore al compagno. L’azione criticata, nel suo codice morale, che è l’abbandono di un compagno in difficoltà, è un atto spregevole. Ciò suggerisce che, almeno per l’orco, la lealtà tra alleati è un valore fondamentale. Questo rivela che anche in una società che potremmo percepire come brutale o spietata, esiste una forma di rispetto e cura per i membri del proprio gruppo.

L’orco sembra giudicare il comportamento del presunto elfo come “tipico” della sua razza, e lo fa con disprezzo.

La frase “lasciarlo lì per terra: tipico degli elfi” non è solo una critica alla mancanza di valore attribuita a un oggetto, ma piuttosto una condanna morale del comportamento verso il compagno abbandonato, e questo rafforza l’idea che l’orco abbia una sua etica di solidarietà e appartenenza al gruppo, in opposizione alla presunta indifferenza degli elfi verso i loro simili.

Gli orchi sono capaci anche di altri atteggiamenti poco esplorati.

Sappiamo che nell’est (Pierluigi ha ampiamente discusso con dovizia di dettagli) gli orchi disprezzassero Sauron per il suo aspetto.

Dall’anello di Morgoth leggiamo “(1). Come dimostra il caso di Aulë e dei Nani, solo Eru poteva creare creature dotate di volontà autonoma e capacità di ragionamento. Tuttavia, gli Orchi sembrano possedere entrambe: sono in grado di tentare di ingannare Morgoth o Sauron, ribellarsi a lui, o criticarlo.”

In questo senso, gli orchi, e coerentemente col loro statuto ontologico, possono ribellarsi a Sauron combatterlo e in virtù di ciò riorganizzare le loro esistenze secondo un nuovo ordinamento.

Ciò è quello che vediamo in Adar.

Adar non è altro che il motore narrativo che mette in azione quanto è stato appena riportato: guida i ribelli dell’est per trovare insieme a loro una casa dove vivere in “pace” la pace come la ritengono loro, beninteso.

Nelle Due Torri troviamo il seguente dialogo tra Gorbag e Shagrat.

“Grr! Quei Nazgûl mi fanno venire i brividi. Ti strappano di mano il corpo senza nemmeno guardarti, e ti lasciano fuori nel freddo e nel buio. Ma a Lui piacciono; in questi tempi sono loro i Suoi beniamini, dunque è inutile borbottare. Te lo assicuro, non è uno scherzo servire laggiù nella città”.

“Dovresti provare a star quassù in compagnia di Shelob”, disse Shagrat.

“Vorrei provare un posto dove non ci siano né l’una né gli altri. Ma ora la guerra è incombente, e dopo le cose saranno probabilmente più facili”.

“Pare che stia andando bene, a sentir quello che dicono loro”.

“E che cos’altro potrebbero dire?”, grugnì Gorbag. “Lo vedremo. Ma comunque, se effettivamente finirà bene, ci sarà molto più spazio. Che ne te pare? Se dovessimo avere l’occasione, tu e io, di svignarcela e metterci su per conto nostro con pochi ragazzi fidati, in un posto dove c’è del buon bottino e niente capi né superiori?

“Ah!”, esclamò Shagrat. “Come ai vecchi tempi”.

In questo dialogo, i personaggi orchi emergono come più che semplici creature al servizio del male. Si intravede una loro complessità morale, una loro umanizzazione e un’aspirazione all’indipendenza, elementi che li rendono capaci di tradire il loro capo, Sauron.

Gli orchi si esprimono con emozioni riconoscibili, molto simili a quelle umane. La paura dei Nazgûl, per esempio, li rende vulnerabili e li avvicina all’umano: “Grr! Quei Nazgûl mi fanno venire i brividi. Ti strappano di mano il corpo senza nemmeno guardarti, e ti lasciano fuori nel freddo e nel buio”. Qui Gorbag manifesta una paura tangibile, quasi fisica, esprimendo il disagio di fronte a forze oscure che non comprende del tutto. Questo sentimento di paura è profondamente umano, perché ci ricorda la vulnerabilità di fronte a poteri superiori, estranei e incontrollabili.

Il dialogo tra Gorbag e Shagrat è intriso di desiderio di emancipazione. Quando Gorbag dice: “Se dovessimo avere l’occasione, tu e io, di svignarcela e metterci su per conto nostro con pochi ragazzi fidati, in un posto dove c’è del buon bottino e niente capi né superiori”, emerge una chiara spinta verso l’autonomia. Gli orchi qui non sono semplicemente servi obbedienti; anzi, desiderano un futuro in cui possano essere liberi dai “capi” e dai “superiori”. Questo è il linguaggio di chi anela all’indipendenza, non solo fisica ma anche morale.

Il tradimento non è solo possibile, è pensato e valutato. La riflessione di Gorbag: “Come dicevo, i Grandi Capi, eh sì, persino il più Grande, possono commettere degli errori” è una chiara messa in discussione dell’infallibilità del potere superiore. Questa frase, pronunciata quasi sottovoce, è il segnale di un tradimento imminente. Gli orchi non sono più disposti a seguire Sauron ciecamente. Non solo riconoscono i suoi errori, ma si mostrano pronti a tradirlo se se ne presentasse l’occasione.

Gli orchi non sono solo creature rozze e malvagie, ma personaggi con un’umanità latente che emerge nei momenti di vulnerabilità e riflessione. Il loro “grugnire” non copre del tutto la loro capacità di analizzare criticamente la realtà, mostrando un barlume di intelligenza che va oltre la semplice obbedienza. In particolare, il desiderio di Gorbag e Shagrat di vivere “come ai vecchi tempi” sottolinea il rimpianto per una libertà perduta, un’esistenza in cui potevano agire in base ai propri interessi, senza imposizioni esterne.

Il loro piano di svignarsela e “metterci su per conto nostro con pochi ragazzi fidati” è un chiaro segnale di autonomia: sognano un futuro senza oppressori, in cui possano avere il controllo su se stessi. Qui l’indipendenza è vista non solo come una liberazione dal giogo di Sauron, ma anche come un ritorno a un’esistenza più dignitosa e rispettosa dei propri desideri.

La paura dei Nazgûl umanizza gli orchi, facendoli apparire vulnerabili e pensierosi, non meri strumenti di distruzione. Il loro desiderio di svignarsela e l’analisi critica dei “Grandi Capi” riflettono un senso di autonomia che, una volta riconosciuto, rende il tradimento una conseguenza quasi naturale. Il riconoscimento dell’errore da parte del potere superiore (Sauron), come indicato nella frase “persino il più Grande, possono commettere degli errori”, dimostra che gli orchi non sono ciechi seguaci, ma individui capaci di giudizio.

Infine, la speranza di un futuro libero, unito al disprezzo per i capi, li rende capaci di considerare la ribellione e il tradimento come opzioni valide e, in un certo senso, giuste.

Tutto questo risulta compendiato nella frase di Adar.

“I miei figli non hanno un capo. Ma ognuno ha un nome, un cuore. Noi siamo creazioni dell’Uno (nella lettera, Tolkien specifica “persino gli Orchi diventerebbero parte del Mondo, che è di Dio, e quindi in fin dei conti buono) creati dal fuoco segreto, proprio come voi siamo degni del soffio della vita e altrettanto di una casa” (nel dialogo summenzionato Gorbag suggerisce “Se dovessimo avere l’occasione, tu e io, di svignarcela e metterci su per conto nostro con pochi ragazzi fidati, in un posto – una casa appunto – dove c’è del buon bottino”).

Si comprende bene che una tale risistemazione dello “statuto orchesco” dà a loro tutt’altro spessore e tutt’altra luce rimettendo in discussione finanche lo “statuto d’umanità” dei cosiddetti buoni.

Nel Signore degli Anelli gli orchi diventano prede legittime non solo per gli eroi del testo ma anche per i lettori anche per i suoi lettori. Prede in senso letterale.

Richard Bergen, con ironia sottile, sottolinea come Aragorn, nel decidere di condurre Gimli e Legolas all’inseguimento di una banda di Orchi, proclami con tono sportivo: “Avanti i Tre Cacciatori!” (Bergen 2017, 116, citando Tolkien 2008c, III.1 546). E nei materiali preparatori per l’Appendice A del Signore degli Anelli, i figli di Elrond vengono descritti come grandi cacciatori, sebbene non cacciassero bestie selvatiche, ma seguissero implacabili le orme degli Orchi, ovunque essi si nascondessero (Tolkien 1996, 264).

Giusto, si dirà, se Aragorn e i figli di Elrond danno la caccia a spietati assassini.

Ma c’è un momento che non lascia indifferenti: inseguendo la banda di Orchi attraverso le terre del Rohan, Aragorn e i suoi compagni si imbattono in oggetti lasciati indietro dagli inseguiti: croste di pane, un mantello, una scarpa (Tolkien 2008c, III.2 550).

E qui si insinua una domanda cruciale: cosa accadrebbe se gli Orchi non fossero solo spietati guerrieri armati, ma venissero rappresentati come panettieri, filatori, tessitori, sarti o calzolai? La visione di Aragorn, dei figli di Elrond, e persino la nostra, cambierebbe? Non incontriamo mai membri di una comunità orchesca che non siano guerrieri crudeli e assetati di sangue, e questa assenza, così apparentemente insignificante, è invece un punto focale delle narrazioni di Tolkien, un punto che permette — e quasi giustifica — un’oscura fantasia genocida (si veda Young 2016a, 96-97).

Donne Orche, bambini Orchi? Non li vediamo. Non esistono, o almeno non vengono mostrati, anche se Richard Sturch, in modo inquietante, ha suggerito che alcune delle guerriere che incontriamo potrebbero essere femmine (Sturch 1980, 5).

Nella serie finalmente vediamo ciò che è il non detto di Tolkien.

Questo perché il genere letterario un cui sgorga la Terra di Mezzo, non è, come qualcuno dice, un Fantasy classico, ma è piuttosto una sorta di romanzo storico fantasy. Una mescola ossimorica di termini che però dicono il vero.

«”La Terra-di-Mezzo non è … una mia invenzione. È una modernizzazione o un’alterazione … di un’antica parola (greca) che indicava il mondo abitato dagli uomini, l’oikoumene: di mezzo perché si pensava vagamente che fosse posta al centro di mari che la circondavano e (nell’immaginazione nordica) tra i ghiacci del nord e i fuochi del sud. Antico inglese middan-geard, inglese medioevale midden-erd, middle-erd. Molti recensori sembrano pensare che la Terra-di-Mezzo sia su un altro pianeta!”»

(J.R.R. Tolkien, Lettere, n. 211)

Firchow nell’esaminare il tema degli orchi si spinge oltre, facendo notare che è possibile nutrire fantasie genocidie sugli Orchi perché non ci sono né donne né bambini tra loro.

Ma Firchow si chiede anche: “esistono forse femmine o goblin infanti?” (Firchow 2008, 27). Ebbene sì, lo abbiamo chiarito poco fa. Bolg, il generale orchesco alla Battaglia dei Cinque Eserciti, è identificato come il figlio del signore dei Goblin, Azog (Tolkien 2008b, ‘Appendice A’ 1416), il che implica che una volta Bolg sia stato un bambino, con una madre. E Gollum, nei suoi anni di esilio sotto le Montagne Nebbiose, ha cenato con i resti di bambini Orchi (Tolkien 2008, 128).

Per concludere, gli orchi umanizzati non sono un’invenzione della serie, sono creature di Tolkien. Il fatto di essere mostrati in atti malvagi, non li priva della loro intrinseca moralità così come la riscontriamo in Shylock (Il Mercante di Venezia); Heathcliff (in Cime tempestose) o anche, semplicemente, nella realtà.